La nostra inviata speciale Ilaria Bellantoni ha setacciato i bar catalani a caccia di super appetizer. Leggete come è andata.
Più che a Pinocchio, Juanito assomiglia a Geppetto, che se fosse esistito davvero, avrebbe di certo riso con gli occhi come fa questo signore di 75 anni tutte le volte che ti serve un vermut. «A un certo punto della mia vita, Collodi divenne un'ossessione. Così, quando mi regalarono un cagnolino, lo chiamai Pinotxo e finii col dare al mio bar lo stesso nome», trilla con la sua voce ancora d'argento.
Siamo a Barcellona, al mercato della Boqueria, uno dei più amati dai gourmet d'Europa che si mettono in fi la con le massaie e gli chef per comprare frutta e verdura, ma anche pesce e cioccolatini e caramelle incartate ancora una per una davanti ai loro occhi. Poi, intorno alle 11 del mattino, fanno il primo giro di tapas opicapica, come si dice da queste parti. Si siedono al bancone di Geppetto e ordinano crocchette di merluzzo, calamari fritti, sardine marinate all'aceto, tartellette di granchio.
Visto che si pranza tra le 14 e le 16 e non si cena prima delle 21.30, tra un pasto e l'altro ci sono gli assaggini ora firmati da cuochi con le stelle Michelin. La loro storia inizia in una taverna andalusa, dove un cameriere ebbe l'intuizione di poggiare una fetta di pane su un calice di vino (tapa sta per coperchio) per allontanare le mosche. Dopo qualche tempo, un collega ci fece cadere sopra del jamón serrano e dopo il prosciutto crudo arrivarono infi nite ghiottonerie salate. E insomma, voilà le tapas.
Si consumano a qualsiasi ora del giorno, stimolano l'appetito e rallegrano la conversazione anche in tempi di crisi: «Perché ti basta una manciata di euro per uscire e distrarti con gli amici», spiega Matias Gravenhorst, imprenditore. Da che il tasso di disoccupazione è arrivato al 19% e Zapatero si è meritato l'appellativo di "Mister Bean" per la poca abilità ad affrontare realisticamente la recessione, tutti si lamentano ma nessuno rinuncia a divertirsi. «Perché qui si lavora per vivere, non il contrario», continua Matias. «Se ieri ti prendevi due whisky e mangiavi cinque tapas, oggi le riduci a due e bevi una birra.
La convivialità è un bisogno primario, da noi». E i bar sono sempre pieni. Lo constato mentre mi avventuro nel Born, un labirinto medievale di stradine costellate di atelier e pasticcerie, come la storica Granja (Carrer de Petritxol 2), che prepara la migliore cioccolata calda della città, con la panna montata ancora a mano e i churros (frittelle) più leggeri e croccanti che abbia mai assaggiato. Supero il Museo di Picasso, sbuco proprio di fronte alla chiesa gotica di Santa Maria del Mar e all'enoteca La Vinya del Senyor, e proseguo fino a Bubò(Caputxes 6-10, tel. +34 932687224), il bar di Carles Mampel, campione mondiale di torta al cioccolato che sforna dolci curati come accessori di moda e "tapas di design" che arrivano in tavola sotto forma di lecca lecca di parmigiano, plumcake di funghi e bacon, bon bon di formaggio di capra e lamponi, mini sandwich alti come i panini-grattacielo che faceva Gualtiero Marchesi negli anni Sessanta.
Da Lonja de tapas, deciIne di bocconcini mi tentano, ma io passo. Nella stessa piazza c'è la coda per entrare da Cal Pep, famoso per le tapas di pesce e per il "trifasic", misto di calamari, bianchetti e gamberi. Da El Xampanyet, invece, si va per l'atmosfera e per il tonno con le olive farcite ai peperoni. Ma in Catalogna anche i baschi ci provano. A prenderti per la gola, intendo. Da Irati (Cardenal Casanas 17, tel. +34 933023084) con ipintxos: fette di baguette ripiene di ogni bendiddio.
Ma l'ultima novità sono le tapas griffate: nueva cocina española a prezzi democratici. Da quando Carles Abellán, discepolo di Ferran Adrià, ha inaugurato Comerç 24 manda in tavola 4 o 5 piattini creativi alla volta. «Oggi abbiamo una stella Michelin e si deve prenotare con almeno un mese d'anticipo per provare il menu degustazione Gran Festival», avvisa il manager Marc Martinez. Dalla cucina escono consommé di uova, tartufo e parmigiano e tonno-pizza-sashimi: «Preferisci qualcosa di tradizionale? Vai da Tapaç 24, il nostro bar più popolare», consiglia lanciandomi un'occhiata da snob del gusto. Il Tapaç 24 è all'Eixample, nello stesso quartiere della Casa Batlló di quel genio del señor Gaudí e della Sagrada Família, il suo esagerato progetto iniziato da più di cento anni e ancora incompleto: anche se mancano all'appello una decina di torri, si dice che la basilica sarà consacrata da papa Benedetto XVI il prossimo novembre.
Quando ordino il bikini, compare un paninetto con prosciutto e mozzarella di bufala. Tocca provare le crocchette di prosciutto e la coca, una focaccina con acciughe e peperoni. Da bere birra Moritz, por favor. Poi, sono pronta per Inopia Clàssic Bar, il gastrobar di Ferran Adrià, il più grande chef vivente che nel 2012 chiuderà El Bulli e se ne andrà in vacanza. «Hai idea di che pressione ci sia a essere il migliore del mondo?», mi chiede Joan Martinez.
Ex camionista, è cresciuto con i fratelli Adrià, e Albert, il minore, gli ha chiesto di gestire il suo bar, quello del ritorno alle origini: niente idrogeno e sifoni, ma insalata russa, pane e pomodoro, prezzi decenti. Gli affari vanno così bene che ha dovuto assumere un buttafuori per regolare il fl usso di gente che all'inizio si strattonava per mangiare in piedi le patatas bravas, le patate "coraggiose" con la salsa piccante, a 3,50 euro.
«Se c'è qualcosa che assomiglia alla realtà è pura coincidenza», ha fatto scrivere sul muro Albert Adrià . Qui lavorano gli stessi cuochi che al Bulli, sulla Costa Brava, hanno fatto il "servizio militare", ossia venti ore al giorno ai fornelli per sei mesi di fi la. Uno di loro è indiano e mi passa dei cubetti di melanzane fritte con la melassa che mi fa venire voglia di stampargli un bacio in faccia, tanto sono delicate. Ha ragione Ferran: un'ottima sardina è sempre meglio di un'aragosta mediocre.